In questo museo si possono trovare dei gatti girovagare nelle stanze: ma una volta la situazione andò fuori controllo

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di Gianmarco Bonomo

26 Maggio 2024

Il cartello della Cat Welfare Society del British Museum, e The Cat Man in persona
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Non è raro trovare dei gatti nei musei: esistono tantissimi dipinti e affreschi, sculture e mosaici che raffigurano questi animali domestici. Eppure, a volte non è raro che nei musei si trovino anche gatti veri, come avvenuto al British Museum nel corso del Novecento. Il problema è che, per qualche tempo, la presenza dei felini è diventata un po’ troppo fuori controllo, fino a una risoluzione che non tutti si sarebbero aspettati.

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Il British Museum e i gatti

Ham/Wikimedia Commons - GFDL Version 1.2

Il primo gatto del British Museum di cui si abbia notizia è Black Jack, un gatto nero con le zampe bianche appartenuto al curatore dei manoscritti Sir Frederick Madden, nell’Ottocento. Di Black Jack ci si ricorda soprattutto per i danni causati alle copertine di alcuni libri, una volta rimasto chiuso all’interno di una stanza. La verità è che in molti apprezzavano “il gatto portiere del British Museum”, come veniva spesso definito. Ancora non lo sapevano, ma Black Jack avrebbe dato inizio ad una tradizione lunga più di un secolo.

A inizio Novecento, infatti, l’egittologo e orientalista Sir Ernest Wallis Budge adotta Mike, un gatto tigrato con il quale sviluppa un legame profondo. Con il tempo, il felino domestico impara persino a scacciare i piccioni e il British Museum diventa la sua casa. Nonostante i problemi di salute e l’età avanzata, Mike rimane un guardiano fedele fino al 1929: oggi possiamo trovare una lapide commemorativa vicino all’ingresso del museo, a testimonianza del suo ruolo.

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I gatti conquistano il British Museum

Tre dei sei gatti rimasti al British Museum dopo il "tentativo di conquista"

British Museum

Arriviamo quindi agli anni 60 del Novecento. La guerra è ormai un ricordo, ma complici le ricostruzioni il British Museum viene invaso da una colonia di gatti randagi. Dai pochi esemplari iniziali, la colonia inizia a riprodursi e diventa man mano sempre più ingestibile: i dipendenti del museo ritrovano gatti di tutte le età nei locali e fra i libri della biblioteca. Di fronte a questa presenza, il ricordo va immediatamente a Black Jack: se un solo gatto era riuscito a distruggere le copertine di svariati volumi, cosa potrebbero fare decine di gatti?

Nel corso dei 15 anni di occupazione, i gatti al British Museum diventano un centinaio, e le autorità iniziano a valutare tutte le alternative. Alcuni vorrebbero solo scacciarli, altri vorrebbero letteralmente distruggerli. Per fortuna, a prevalere è la visione di un gruppo di dipendenti che decide di radunare i gatti, sterilizzarli e avviare un piano di adozioni. Da oltre 100 felini, la popolazione del British Museum si riduce a soli sei gatti, che vengono praticamente assunti dal museo come lo erano stati Black Jack e Mike.

Ci sono gatti al British Museum oggi?

Rex Shepherd e uno dei gatti rimasti al British Museum

British Museum

Alla fine degli anni 70, passata l’emergenza felina, un addetto alle pulizie del British Museum prende a cuore i nuovi assunti e fonda la Cat Welfare Society. Rex Shepherd, questo il nome dell’addetto alle pulizie, viene da quel momento conosciuto come “The Cat Man”, l’uomo dei gatti. Durante i suoi anni al British Museum, Rex si prende cura dei felini domestici e insegna loro a scacciare ogni minaccia, dai topi ai piccioni, dando così risalto alla storia dei gatti del museo britannico. Lo stesso New York Times dedicherà anni dopo un articolo alla vicenda, anche se ormai conclusa da anni.

Nel 1985, infatti, anche l’ultimo dei gatti del British Museum scompare e la Cat Welfare Society, senza più uno scopo, si scioglie. Certo, la presenza dei felini rimane nei ricordi e nelle testimonianze scritte, ma al museo soltanto un cartello resta a testimonianza di un’era perduta. Un’era in cui i gatti avevano tentato di conquistare il British Museum, e per poco erano riusciti nell’intento.

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