Rinchiuse in manicomio pur non essendo pazze: il destino delle donne "ribelli" durante il Fascismo

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di Marco Renzi

21 Ottobre 2016

Rinchiuse in manicomio pur non essendo pazze: il destino delle donne "ribelli" durante il Fascismo
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Quando i due ricercatori Annacarla Valeriano e Costantino Di Sante iniziarono a studiare le cartelle cliniche del manicomio di Sant'Antonio Abate a Teramo, aperto dal 1881 al 1998, si trovarono di fronte fotografie, lettere e cartelle cliniche che non corrispondevano esattamente a ciò che ci si aspetta dai pazienti di una struttura del genere. Quelle che avevano davanti erano infatti le testimonianze di decine e decine di internamenti che con la follia avevano davvero poco a che fare e che risalivano principalmente al Ventennio Fascista.

In quel periodo la propaganda mirava a mostrare e pubblicizzare un'immagine della donna come elemento portante della famiglia e della società: la sua funzione era quella di riprodursi il più possibile, per alimentare quel materiale umano che era la ricchezza più grande della patria.

Alla luce di questo pensiero, e con l'ampliarsi e l'irrigidirsi dei confini che definivano la "devianza" sociale, tutte le donne che non volevano aderire a quel modello erano destinate ad essere escluse e spesso internate.

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La categoria di donne che principalmente finiva tra le mura dei manicomi era quella delle cosiddette "madri snaturate", quelle cioè che per loro natura o per cause intervenute successivamente (un trauma o una depressione) non erano state in grado di assolvere ai compiti materni; spesso erano i famigliari stessi ad additarle e a richiederne l'allontanamento, spinti dall'indottrinamento martellante del regime.

Tutte le altre cartelle cliniche riportano diagnosi non meno curiose: parole come "stravagante", "irosa", "impulsiva", "nervosa" ci danno un parametro di quanto labile fosse il confine tra l'accettato e l'inaccettabile, tra il normale e il diverso.

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Spesso le donne erano semplicemente delle massaie rurali, che dopo aver avuto 12, 13 o 14 figli non riuscivano più a badare alla casa ed erano vittime di esaurimenti nervosi. A volte erano semplicemente donne a cui l'esperienza traumatica di un bombardamento notturno aveva tolto il sonno, e che la famiglia allontanava come fossero pazze invece di dare loro supporto e consolazione.

Queste donne trascorrevano interi anni rinchiuse in queste strutture circondate da sporcizia e degrado, tentando invano di implorare le famiglie di riprenderle con sé: le loro accorate lettere infatti troppo spesso non arrivavano a destinazione, e le troviamo ancora oggi miseramente allegate alle loro cartelle cliniche.

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Per dare loro una voce e un riscatto, è stata allestita un'interessante mostra nella Casa della Memoria e della Storia a Roma, dal titolo “I fiori del male. Donne in manicomio nel regime fascista”.

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